1 - Milano - 24 luglio 2008

 
Mio padre era Capitano di Fregata: indossava la sua uniforme anche la domenica per ricordare a noi ragazzi e a tutti i vicini che lui era un “vero uomo”. La Marina Militare era il suo orgoglio o, ancor meglio, la sua vita, così come era al tempo stesso la spada di Damocle che pendeva sulla nostra testa. Se sei figlio di un Capitano di Fregata dovrai diventare almeno un Tenente di Vascello e magari anche qualcosa di più, dovrai indossare la tua uniforme ogni giorno ed essere l’orgoglio di tuo padre … io da piccolo soffrivo il mal di mare.
Ebbene sì: sono il secondo figlio maschio di un ufficiale di Marina e non ho mai indossato una divisa, odio perfino le camicie e non le metterei mai se non fosse per scrupolo di eleganza; ma stavamo parlando di mio padre…
La sua vita si basava sulle abitudini acquisite all’Accademia Navale di Livorno e dolcemente smussate, dopo anni di sforzi, dalla donna più paziente che il mondo abbia mai conosciuto, mia madre. Perché l’avesse sposato, sinceramente, non l’ho mai capito bene: certo da giovane era veramente un bell’uomo, ma il suo carattere ci voleva coraggio a sopportarlo! Può sembrare lo sfogo esagerato di un figlio adirato perché il padre non lo ha lasciato andare in discoteca, ma la mia vicenda è molto diversa: per raccontare mio padre posso solo parlare di me bambino, innocente vittima di una mania per la disciplina. Alla veneranda età di quattro anni ho imparato a marciare, mio padre diceva che avrebbe rinforzato i muscoli e fatto di me un vero uomo: non vi racconto quante volte sono caduto nel tentativo di tenere lo “sguardo fisso all’orizzonte” invece che guardarmi i piedi. A dieci anni ho sparato per la prima volta, a tredici l’ultima: appena ho avuto la forza di oppormi a quella tortura, l’ho fatto. Odiavo la caccia, odiavo il fucile, odiavo tutto ciò che riguardasse la crudeltà e la violenza: mio padre mi disse che sarei diventato una mezza femmina, queste furono le sue testuali parole. Non sono diventato il figlio che mio padre desiderava, e forse non sono nemmeno diventato l’uomo che io desideravo.
Dicono di me che sono simpatico, affabile, socievole, allegro, spensierato e incosciente, forse sono tutte cose vere, ma c’è molto di più di ciò che può apparire a un primo incontro. Sono cresciuto con l’etichetta del ribelle stampata in fronte, tutti avevano scritto il mio futuro e io ho deciso di andare fuoristrada.
Fin da piccolo a scuola non sono mai stato il primo della classe, ma quello che se la cava, ai cui genitori non si fa che ripetere: “ah se studiasse un po’ di più…”. Nonostante ciò, anno dopo anno, sono arrivato alla maturità senza problemi. Chi l’avrebbe mai detto che uno come me un giorno avrebbe potuto mettere piede in un’università se solo qualcuno gli avesse pagato gli studi.
Mia madre, da piccolo, mi diceva che per conquistare una donna occorre un buon sorriso e una storia da raccontare e questa io l’avevo di sicuro… A quattordici anni sono scappato di casa per la prima volta, il perché non lo so bene: in qualche modo volevo dimostrare a me stesso che ero un “duro”. Certo non sono andato molto lontano, ma ci sono voluti tre giorni prima che mi trovassero! Sapevo che mio padre non avrebbe mai chiamato la polizia: sarebbe stato un affronto che la notizia fosse pubblica. Così mi ha facilitato di molto la latitanza, in più la ragazza di mio fratello è stata molto gentile ad ospitarmi! Le donne hanno sempre avuto un debole per me, fin da adolescente mi divertivo un mondo se capivo di piacere a una ragazza, poi, crescendo, sono diventato un Casanova senza alcuno scrupolo morale. Non mi interessava se potevano restarci male quando dopo una sola notte sparivo, non mi interessavano le loro storie, i loro pensieri, per quanto assurdo possa sembrare volevo solo sentirmi uomo. Fra gli amici ormai ero considerato un figo, ma in famiglia niente, ero sempre quello che non voleva sparare, idea che almeno condividevo con la mia sorellina, restia quanto me nei confronti di quegli strumenti di morte, ma per sua fortuna mai costretta a imbracciarne uno.
E così continua la mia vita fra serate al pub o in discoteca e qualche lavoro saltuario per potermi mantenere e pagare l’affitto della stamberga in cui vivo dalla maggiore età. Mio padre non lo sento quasi mai, fanno eccezione giusto le feste comandate e il compleanno della mia sorellina.
 
Appoggiai la penna sul tavolo, avevo impiegato più di un’ora per scrivere quel foglio e poi sentirmi completamente svuotato. Il mondo che rinchiudevo dentro di me era fuoriuscito tutto all’improvviso, cose che mai avrei pensato di dire avevano trovato spazio su quel foglio di carta. Decisi di farmi un caffè, così giusto per tentare di ripigliarmi un po’, ancora non mi capacitavo che quella ragazza fosse riuscita a convincermi.
«Mi fai un favore?», mi aveva domandato con i suoi occhioni dolci ed io, senza neanche cautelarmi un minimo, avevo risposto sinceramente che per lei avrei fatto di tutto.
«Dai, visto che non mi dici mai nulla, prendi un pezzo di carta e scrivi tutto ciò che ti viene in mente su di te, vedrai parlerai di tuo padre».
Come aveva fatto a indovinare? Annie non era una ragazza come le altre, lo pensavo ogni giorno di più. Ormai erano parecchi anni che ci conoscevamo e fra noi non c’era stato mai neanche un bacio: non che fosse brutta o antipatica, ma non avevo mai voluto seriamente conquistarla, era troppo per me … e va bene, non esageriamo: pensarci ci avevo pensato spesso, ma temevo che quel delicato filo rosso fra noi avrebbe potuto spezzarsi e non volevo perdere quell’amica. La regola dell’amico: quante volte avevo ascoltato quella canzone prima di uscire con lei! Speravo in tal modo di convincermi che era l’idea migliore: avevo rovinato molte amicizie con quel mio atteggiamento da Don Giovanni.
Ora però dovevo spicciarmi, Annie se la sarebbe presa per il ritardo e poi avrei dovuto inventarmi qualcosa per farmi perdonare. Doccia veloce, jeans e maglietta e via in moto più veloce del vento.
19.29 un minuto di anticipo! Mi sentivo come uno scolaretto il primo giorno di scuola con il compito in mano e la paura per il giudizio dell’insegnante. Quanto era lunga quell’attesa: i secondi diventavano minuti, i minuti ore fino a quando: eccola!
«Ciao Lu, come va?».
«Ciao bimba, tutto bene». Perché mento? Perché non le dico che mi sento stanco morto, che mi sembra di aver corso per un giorno intero?
«Eppure sembri un po’ stanco, sicuro che sia tutto ok?».
Ecco mi becca sempre, eppure non mi cresce il naso.
«Sì, sì, non ti preoccupare solo un po’ di sonno. Allora cinema o parco?».
«Parco così facciamo due chiacchiere…».
Mi condusse mano nella mano fino a un prato costellato di numerosi faggi e disse: «Scegli l’albero che preferisci, oggi non ho voglia di stare al sole».
Ci sedemmo sotto un albero sufficientemente frondoso e chiacchierammo del più e del meno senza il minimo accenno al mio grande sforzo di quella giornata. Quando il sole iniziava a nascondersi dietro le cime dei palazzi in lontananza, capimmo che era giunta l’ora di tornare verso le nostre abitazioni e fu solo allora che si decise a dirmelo: «Sai Lu ci tenevo molto a passare questo pomeriggio con te perché per un po’ di tempo non ci vedremo, forse avrei dovuto parlartene prima, ma poi avremmo trascorso ogni minuto insieme con il pensiero della mia partenza e non sarebbe stato più così divertente».
Si prese una pausa come se cercasse nel cielo il gobbo del suo discorso e, intanto, percepivo ogni mio muscolo irrigidirsi, dentro di me ero tutto un tremito e volevo urlarle i miei pensieri: come parti?! Dove vai? Per quanto? Quando torni? Perché mi lasci? Con chi vai via? Da quanto hai deciso di andartene? Perché mi fai questo? Ma dalla mia bocca uscirono solo parole calme e pacate: «Dai continua, ti ascolto».
Non sapevo nemmeno io come fossi riuscito a placare quel terremoto di emozioni e pronunciare una frase così stupida, ma lei parve non accorgersene e continuò: «Ho ricevuto un’offerta di lavoro. Beh in realtà l’ha ricevuta mio padre: sai le amicizie giuste, i vari scambi di favori e così mi manda a Udine a lavorare presso uno studio di avvocati come segretaria. Si occuperanno loro di trovarmi un alloggio e garantirmi la possibilità di continuare i miei studi con orari di ufficio flessibili. Credo tu possa capirmi quando ti dico che non potevo certo rifiutare: non è il sogno della mia vita, ma avrò l’occasione di andarmene di casa, diventare un po’ più indipendente, guadagnare qualche soldo e così via, mi capisci, vero?».
«Ti capisco? Sì, certo non ti preoccupare», risposi come un automa «poi non è così lontano, potrei quasi venirti a trovare di tanto in tanto. Ora avviamoci che si sta facendo tardi, ti accompagno a casa, ma quando parti?».
«Domani», disse mentre mi regalava un bellissimo sorriso.
 

2 - Udine - Un nuovo inizio

 
Ambientarsi nella nuova città non era stato per nulla facile: Annie si era trovata catapultata da un giorno all’altro in un mondo di avvocati affermati, che stavano tutto il giorno in panciolle dietro le loro imponenti scrivanie di noce. I compiti che doveva svolgere in ufficio non erano difficili e in più aveva l’occasione di accumulare un sacco di esperienza su casi legali di discreta importanza, insomma quelli che a un neolaureato non sarebbero mai stati affidati. Di solito mentre batteva a computer le arringhe dell’avvocato De Marchi, si chiedeva cosa avrebbe detto lei in aula, come le sarebbe piaciuto impostare la difesa… dopo tutto fare legge non era stata una scelta così folle, certo non era sua, ma in fondo non le dispiaceva, c’era solo una cosa che la turbava sempre più spesso: non c’era mai nessuno che si chiedesse se i loro clienti fossero innocenti o colpevoli, né avvocati, né segretarie. Li difendevano, e anche bene, e certo nessun crimine era grave, ma a lei sarebbe piaciuto sapere se quegli uomini erano o non erano evasori, falsari, traditori.
Tutto sommato però la vita d’ufficio procedeva alla grande e ora che erano ripresi i corsi in università aveva occasione di conoscere un po’ di ragazzi della sua età, farsi nuovi amici e uscire qualche sera ricordandosi così di avere solo ventidue anni.
In quella città il tempo correva: fra lavoro, studio e uscite con gli amici non aveva più un momento libero e così le ferie diventavano un miraggio. Le mancava la sua famiglia, gli amici di Milano, la sua casa, ma poi si diceva che a Natale vi avrebbe fatto ritorno, così tirava avanti un’altra settimana.
Le vacanze arrivarono, ma Annie non tornò a casa: i suoi genitori erano venuti a Udine per vedere come si era sistemata e far visita ad altri parenti lì vicino. Fu una gran festa con musica e balli, ebbe l’occasione di conoscere altri lontani cugini con cui decise di andare in vacanza nei giorni successivi. Qualche giorno in Austria a sciare con quei disperati la ripulì da ogni fatica dei mesi precedenti e così poté presentarsi ai primi di gennaio in ufficio più fresca che mai: aveva voglia di riprendere, sperava che qualcuno dei soci dello studio prima o poi le chiedesse delle opinioni a riguardo di qualche caso, erano già stati così gentili ad aiutarla con i primi esami che non le pareva cosa così impossibile.
Eppure il primo giorno di lavoro aveva come una strana sensazione: era convinta di essersi scordata qualcosa di importante e così ricontrollò minuziosamente tutto ciò che aveva fatto senza trovare alcun errore, no, doveva essere qualcos’altro. A pranzo un suo compagno di corso la invitò in pizzeria, il posto era carino, dava sulla strada, ma la verandina ricoperta di glicine, ora spoglio, lo isolava dal traffico e all’interno era ben curato e spazioso. Si diressero verso il cortile interno, dove una ragazza bionda con gli occhi neri come la pece li fece accomodare e portò loro un voluminoso menù. Il suo gentile accompagnatore, Mattia, sprofondò nella lettura delle varie pietanze mentre lei sapeva già che avrebbe preso una semplice margherita.
«Vada per la margherita», le disse, «sai leggo sempre tutte le pizze, ma poi non so scegliere che la prima dell’elenco!».
Il suo sorriso era genuino e gentile, ma il viso di Annie si incupì in un misto fra tristezza e dolore: LUCA!
Come aveva potuto dimenticarlo?! Nell’ultima mail glielo aveva promesso, poi tutti i suoi programmi erano cambiati e lei si era scordata del suo migliore amico. Non poteva essere! Chissà quanto c’era rimasto male, cosa poteva fare ora?
No, era da cancellare quell’idea che sorgeva spontanea dal profondo del suo cuore di mollare tutto e andare a trovarlo, no, non era proprio possibile. Gli aveva promesso che sarebbe passata a trovarlo durante le vacanze di Natale, gli aveva anche raccomandato di non scrivere, né chiedere nulla che un giorno si sarebbe presentata all’improvviso e lui fedele a quella promessa non si era più fatto sentire.
«Tutto bene?», chiese Mattia con un velo di preoccupazione nella voce: «Posso fare qualcosa?».
«No, no, non ti preoccupare: mi sono solo ricordata di una cosa importante che dovevo fare. Allora mi stavi parlando del caso Larkin: com’è che sono riusciti a farlo assolvere quel manigoldo?».
La conversazione riprese come se nulla fosse accaduto e il pranzo terminò fra i dubbi di Mattia, il sorriso forzato di Annie e la fortuna di un mascalzone che era riuscito a spacciare erba per qualche anno per poi sostenere che vendeva solo margherite.
Quella sera Annie non riuscì ad addormentarsi, ma non ebbe nemmeno la forza di comporre quel numero sul suo cellulare, non poteva sentire la voce del suo migliore amico che si sforzava di non apparire troppo deluso. Le avrebbe detto che non era nulla, che non doveva preoccuparsi, ma lei sapeva la gravità di quella sua mancanza, così come sapeva che non chiamarlo era ancora peggio. Da quando era partita si erano sentiti sempre meno: all’inizio si scrivevano tutti i giorni, lui chiamava spesso dicendo che voleva sentire la sua voce, poi mail e squilli si erano diradati e ora Annie temeva di aver dato il colpo di grazia a quell’amicizia. Alla fine decise di scrivere un’anonima mail, sapeva che era una fuga dal suo dovere, ma di più non riusciva proprio a fare.
“Ciao Lu, come va? Come sono andate le vacanze? Spero ti sia divertito con i tuoi amici, sai per caso come sta Federico?”, quanto tempo fosse che non parlavano più di Fede non riusciva proprio a ricordalo, “Ti devo delle scuse, appena prima delle feste ogni mio programma è saltato, sono venuti qui i miei genitori e poi sono stata via qualche giorno con alcuni cugini che non vedevo da un sacco di tempo. Purtroppo non ho avuto tempo di venire a Milano e ancora più imperdonabile è stato non averti nemmeno avvertito, mi perdoni? Mi manchi e la voglia di vederti cresce ogni giorno di più! Baci”
Era vero che le mancasse così tanto? Iniziava quasi a dubitarne: in fondo, se si era dimenticata di lui, non doveva nemmeno soffrire molto per quel distacco obbligato. Non era forse che tagliando ogni legame con Luca avrebbe finalmente dimenticato anche Fede? Tutti questi pensieri attanagliavano la mente di Annie al punto che l’unica possibilità era gettarsi a capofitto nel lavoro per non lasciare al suo cuore il compito di indicare alla mente la strada giusta.
Nei giorni successivi ricevette numerose lodi dagli avvocati dello studio, stupiti dalla sua efficienza e prontezza nello svolgere i compiti che le venivano assegnati. Iniziarono così a considerarla come un futuro avvocato e, incoraggiati dai suoi risultati in università, decisero di affidarle anche qualche piccola ricerca utile per organizzare alcune difese. Finalmente non era più solo una scribacchina!
Ogni ricerca che le veniva affidata era svolta con tale dedizione da ricevere sempre un elogio da parte dei suoi superiori: per la prima volta Annie era convinta di voler divenire un avvocato e in qualche modo iniziava a capire che forse era meglio non essere certi dell’innocenza del cliente invece che provarne la colpevolezza. Tutto procedeva allegramente sia in ufficio che in università, usciva spesso con Mattia che sembrava farle una velata corte, aveva alcune amiche cui teneva molto e iniziava a parlare con quel buffo accento friulano. Fu proprio dopo una serata al cinema con Tia che lesse quella strana mail. Luca aveva lasciato trascorrere quasi due settimane prima di rispondere e non è che si fosse sprecato:
“Quando passerai di qui ti aspetto, baci Luca
 P.S. con Fede usciamo di tanto in tanto, è sempre il solito giocherellone”.
Cosa volevano dire quelle parole? Perché usciva con Federico? Luca era solito scrivere mail lunghe e contorte e ora all’improvviso si limitava a due righe striminzite: forse voleva nasconderle la sua delusione. Forse era di fretta, ma non poteva esserlo da due settimane, forse pensava anche lui che la loro amicizia era in crisi. La mente di Annie era di nuovo un caos, i pensieri si sovrapponevano senza requie, paure e speranze si alternavano come giorno e notte in un tempo impazzito in fuga sotto i suoi passi. Aveva abbandonato Milano pensando di dimenticare le serate sui navigli con Fede, voleva cancellare quei ricordi a tutti i costi e in qualche modo si era illusa che non trovandoseli più davanti agli occhi, pian piano si sarebbero offuscati anche nella sua mente. In parte era accaduto: ormai non ci pensava quasi più, ma ogni volta che qualcosa gli ricordava quel ragazzo era una fitta al cuore. Non era un caso se non si era più innamorata di nessuno, non aveva nemmeno voluto tentare: uscite e inviti ce n’erano stati, ma appena la cosa poteva farsi seria, fuggiva. In questo il lavoro era la sua salvezza: le lasciava troppo poco tempo per impegnarsi e abbastanza per divertirsi di tanto in tanto, alla fine doveva essere proprio grata a suo padre, quell’offerta era stata per lei come un nuovo inizio.
Con il passare dei mesi Annie si era ormai abituata alla sua nuova vita e i ricordi erano sempre più labili e insapori, nella sua camera ora c’erano solo foto di nuovi amici friulani e i milanesi dormivano tranquilli sul fondo di un cassetto leggermente impolverato.
 

3       Milano - Io e Fede

 
Quel giorno ero tornato a casa con la certezza che non avrei rivisto la mia amica: non volevo dirlo ad alta voce perché sarebbe divenuto reale ma, in fondo al cuore, ne ero convinto. Andarla a trovare mi sarebbe costato solo quattro o cinque ore di viaggio, ma era lei ad essersene andata e, qualora avesse voluto, sarebbe stato più corretto fosse lei a tornare.
«Sì, di questo ero certo, io, Luca Righieri, non mi sarei mosso finché non fosse stata lei a chiedermelo». E così passarono mesi nell’attesa e nella speranza che qualcun altro facesse la prima mossa.
Dal 24 luglio 2008 non è passato un giorno senza che io non pensassi a Annie: mi dispiaceva se ne fosse andata e mi mancava parecchio. Ecco, non sono il fissato che pensa 24 ore su 24 a una ragazza, ma confesso che prima di addormentarmi spesso le mie labbra si schiudono appena mormorando: «Buonanotte piccola».
All’inizio la sentivo spesso e mi faceva anche piacere, ma poi avevamo cose troppo diverse da raccontarci e così ci siano allontanati in tutto e io ho ripreso a vivere esclusivamente la mia vita. Pian piano ho ricominciato a uscire con Federico, comprendendo quanto fosse assurdo e folle il mio rancore verso di lui: è vero aveva fatto soffrire Annie, ma aveva anche lasciato la strada libera e non ne avevo approfittato. Ci siamo ritrovati un po’ per caso, quelle cose un po’ da film: una sera lo riconosci in un locale, ci si saluta, si fa due chiacchiere e si dice: «Dai allora ci rivediamo? Non mi va di perderti per un altro anno».
Di solito finisce tutto lì e chi s’è visto s’è visto, questa volta invece mi ha richiamato e non ci siamo più dimenticati. Ogni venerdì esco con Fede, cosa si fa non importa poi molto: cinema, birra, disco, caccia …, va bene tutto purché ci si diverta. Ho imparato così ad apprezzare alcuni lati del suo carattere che l’invidia mi aveva tenuto segreti e ci siamo riscoperti molto simili. Certo fisicamente non c’è confronto, io biondo con gli occhi azzurri, lui scuro di capelli e di pelle e con gli occhi neri, che celano un animo profondo e irraggiungibile. Per quanto riguarda altezza e corporatura ci assomigliamo abbastanza, ma di sicuro nessuno potrà mai scambiarci per fratelli. Se consideriamo il carattere invece siamo entrambi tipi esuberanti ed estroversi all’apparenza che sembrano sicurissimi di sé e poi possono affogare in un bicchier d’acqua. Sarà per questi aspetti in comune che, seppelliti gli antichi rancori, ce la si intende a meraviglia. In questo periodo ne abbiamo passate tante insieme che ogni tanto le ripetiamo a noi stessi solo per farci due risate davanti a un boccale di birra.
Una sera siamo andati insieme all’Old Fashion con due ragazze con cui si usciva da qualche giorno, poi siamo tornati la mattina dopo con loro tutti un po’ storditi dall’alcool e dal sonno, beh il colmo è stato che solo nel pomeriggio scaricando le foto della serata ci siamo accorti che le ragazze con cui eravamo usciti non erano le stesse con cui avevamo fatto ritorno: abbiamo riso per tutto il giorno e Fede ha tranquillamente commentato: «Almeno ti sei ricordato di non cambiare il tuo migliore amico!».
Quella frase un anno prima sarebbe suonata più assurda che mai e ora era così! Decidemmo anche che il nostro comportamento era troppo immaturo e così il venerdì dopo fu dedicato a un’impossibile sfida a Subbuteo.
Fra serate e lavoretti saltuari arrivò Natale che portò con sé una mail di Annie in cui mi informava che sarebbe venuta a Milano e sicuramente sarebbe passata a trovarmi. La notizia mi lasciò un po’ incredulo, ma subito dopo iniziai a fantasticare come un bambino; mi chiedevo come mi sarei comportato al nostro prossimo incontro, come si sarebbe vestita, il colore delle sue scarpe, il calore del suo abbraccio, le sue prime parole, tutte quelle cose che ti immagini creandoti il tuo bel castelletto e poi arriva un mago cattivo con un lungo ago che fa scoppiare tutto. A te cosa resta? Sicuramente il tuo sogno, le emozioni di quell’attesa e una bella dose di acqua gelata in faccia: quando ho realizzato che Annie non sarebbe venuta non ero deluso, ero vuoto.
Per un paio di giorni nulla ha potuto attirare la mia attenzione: nessun pensiero si componeva nella mia mente. Ero lì: mangiavo, dormivo, uscivo con gli amici, ma non provavo alcuna emozione. In genere sono un tipo incazzoso, quello che se gli fai un graffio alla macchina ti grida dietro di tutto e ci manca poco alle mani, ma quella volta ero serafico: qualcosa nel profondo di me voleva ricordarmi semplicemente che avevo ragione, lo sapevo, l’avevo sempre saputo, eppure mi ero illuso…che stupido che sono.
Non importa, inutile rivangare un episodio doloroso, meglio girarsi dall’altra parte e continuare a correre sui binari della propria vita, magari prima o poi deraglierò nuovamente sui suoi. La sera dopo chiamai Fede, anche se non era venerdì, lo invitai fuori a cena perché avevo bisogno di parlargli: le curiosità che fino a quel momento avevo taciuto volevo levarmele. Gli diedi appuntamento in una pizzeria nella zona di San Siro dove lavorava un mio amico, così ebbi il privilegio di un tavolo abbastanza isolato, che apparecchiavano solo di rado per la sua scomoda posizione. Ritardò di tredici minuti esatti, quell’uomo è sempre stato incredibile: mi aveva avvisato che sarebbe arrivato con tredici minuti di ritardo e così fu.
Uno normale avrebbe scritto sul messaggio, che so: “sono in ritardo, arrivo fra dieci minuti”, oppure: “scusa, ti prometto che in un quarto d’ora sono lì”, ma d’altronde Fede non era uno normale. Si scusò per il disguido che lo aveva fatto ritardare di ben tredici minuti mentre il cameriere ci portò la lista. Diede un’occhiata veloce per poi scegliere una Capricciosa Rossa, un misto di prosciutto cotto, carciofi, olive e funghi. Da parte mia lessi con calma tutto l’elenco, cercai di capire cosa potesse ispirarmi quella sera e poi, come sempre, chiesi una Margherita. Vedendomi silenzioso fu lui a dare il via alla conversazione: «Allora Luca», disse con tono canzonatorio «a cosa devo questa cenetta romantica?».
Lo guardai in silenzio, dovevo sembrare serio perché continuò con un tono leggermente allarmato: «Cos’hai? È successo qualcosa? Non è da te quella faccia contrita, non sembri triste, ma giurerei che hai qualcosa in mente. Dai Luca sono qui, sarò il tuo testimone, interrogami a tuo piacimento e ti giurò che dirò la verità, sempre e solo la verità!». Non era capace di non scherzare, ma mi stupì quell’allusione al linguaggio giuridico, come se già sapesse di cosa volevo parlargli.
Trovai finalmente il coraggio per domandare: «Perché hai lasciato Annie?».
In quei mesi non ne avevamo mai parlato, perlomeno noi due, ed ebbi la certezza che quella domanda non se l’aspettava proprio. Ora anche il suo viso si era fatto serio e le sopracciglia avevano assunto una piega innaturale, come se pensasse proiettando delle immagini nella sua mente. Poi, con tono sereno, iniziò la sua risposta, non mi chiese nemmeno il perché della domanda, semplicemente esaudì la mia richiesta: «È stato una sera di tanto tempo fa, saranno passati quasi due anni credo, eravamo andati in un locale in zona Caiazzo e appena usciti le dissi che fra noi era finita. Il mio tono allora come oggi era tranquillo e fermo, come se stessi rivelando una legge divina. Mi ero preparato quel discorso a lungo per non avere tentazioni, le dissi che non si poteva più andare avanti, che io non lo volevo, che qualcosa si era spezzato. Sulle prime non capì, si vedeva che voleva pormi mille domande, ma il suo orgoglio di donna ferita non glielo permise. La riaccompagnai a casa in un profondo silenzio e per qualche giorno quello fu l’unico rumore nei nostri discorsi. Dopo un po’ quando lei ritrovò la forza di chiedere ed io il coraggio di parlare, le dissi che l’avevo tradita, che non chiedevo il suo perdono e che non avrei mai potuto continuare una storia con quel peso sulla coscienza, che mi sarei sempre sentito inadatto; probabilmente mi avrebbe perdonato perché mi amava, ma fui io a impedirlo… e questo è tutto».
Rimasi in silenzio per qualche secondo per dargli modo di ricacciare indietro quei ricordi, ma poi non riuscii a trattenermi: «No, questo non è tutto», dissi con la sicurezza di chi sa «qual è il motivo che nascondi?».
Non so come il mio tono potesse essere sicuro nonostante non avessi la minima coscienza di ciò che dicevo, ma il trucco funzionò e lui riprese: «Vedo che mi conosci bene. Effettivamente non le dissi tutto, non le dissi mai che mi ero sentito bene quando l’avevo tradita, mi ero sentito libero e colpevole non del gesto, ma di quella sensazione: volevo sentirmi di nuovo così. Era un periodo che discutevamo per ogni cosa: come organizzare la serata, perché non ero andato a prenderla e altre vicissitudini da nulla e io, egoista, avevo voglia di volare libero da quel legame. A volte mi chiedo se non l’ho tradita per avere un pretesto per lasciarla».
«Capisco», fu il mio unico commento, non pensavo si confessasse così con me, forse quel segreto gli pesava e non vedeva l’ora di condividerlo con qualcuno e io, noto Don Giovanni, potevo certamente comprenderlo.
«Non te ne sei mai pentito?», gli chiesi, accorgendomi subito dopo di quanto fosse infida quella domanda.
«Non ti so rispondere: a volte ci penso e mi sento uno smidollato, altre sono convinto che sarebbe comunque finita poco dopo, ma dimmi un po’ come mai ‘ste domande oggi?».
«È che Annie mi ha dato buca, doveva venirmi a trovare per Natale e non si è fatta vedere né sentire se non per una squallida mail di scuse in cui mi chiedeva anche come stavi. Non so perché ti chiedo ora queste cose, alla mail non ho ancora risposto, ma non attendo di sapere come stai per farlo!», dissi cercando di sorridere, «È che poco prima che partisse avevo come avuto la sensazione che si stesse affezionando parecchio a me, ti confesso l’idea non mi dispiaceva affatto, e invece poi è partita e io sono qui a chiacchierare con te, non ti sembra strano?».
«Strano sarebbe dir poco, assurdo, impossibile, allucinante scegli pure cosa preferisci!», nel suo tono era chiaro lo sforzo di mettermi a mio agio, continuò: «Sai, non so nemmeno come comportarmi: per un bel po’ sei stato il mio incubo, ma ti ricorderai anche tu i nostri primi incontri…e ora qui insieme a parlare tranquillamente di lei. Senti ti va una birra sui Navigli, ho voglia di guidare un po’, sentire l’aria fresca che mi schiarisce le idee».
Feci un vago cenno di assenso e in meno di un minuto eravamo fuori da quella pizzeria, lui coi suoi pensieri, io coi miei che non erano poi così diversi.
Per quella sera poteva bastare coi discorsi difficili e così cambiai radicalmente argomento: passeggiando lungo il Naviglio Grande gli raccontai che avevo trovato un lavoro abbastanza buono e così sarei riuscito a pagarmi l’affitto per qualche altro mese. Non era nulla di eccezionale, un negozio di fotografia che aveva bisogno di un ragazzo volonteroso come commesso tuttofare. Non potevano permettersi un vero fotografo a causa di una riduzione di mercato per la diffusione del digitale e così si erano accontentati di un ragazzo dalla faccia pulita. Quel lavoro mi piaceva, vedere tutte quelle foto di spose e bambini orgogliosi della loro prima comunione dava anche un pizzico di allegria alle mie giornate. Potevo immaginarmi le loro storie, i segreti celati dietro i loro volti. Federico mi guardò attonito, forse si stava chiedendo se ero ancora sano di mente ed effettivamente quella sera aveva ottimi motivi per domandarselo, poi mi disse che l’importante era la mia felicità, si fermò per qualche secondo a pensare e poi riprese il leitmotiv serale della confessione: «Sai, a volte ti invidio, tu hai scelto la tua vita, te ne sei andato di casa giovanissimo, te la sei sempre cavata e non ti ho mai visto accusare il colpo. Io, invece, a ventitré anni sono a metà fra una laurea ottenuta che non vale nulla e un’altra che faccio fatica a finire, qualche volta vorrei fregarmene di tutto e invece, ogni sera che hanno bisogno, vado in pizzeria e divento un cameriere così riesco a dare una mano con le spese di casa. La finanza non mi attira particolarmente e ora voglio solo andarmene dalla Bocconi e diventare un uomo, voglio andarmene di casa perché la convivenza con mia madre e mia sorella sta diventando complessa e così mi concentro sugli ultimi studi nel tentativo di convincermi che quando avrò in mano quel pezzo di carta tutti i miei sogni verranno esauditi». Come poteva invidiarmi? Io, che non ho potuto nemmeno scegliere se fare l’università, non avrò mai in mano quel pezzo di carta che si dice capace di aprire molte porte.
Quella serata mi lasciò un po’ perplesso: avevo vissuto sulla mia pelle il significato del famoso proverbio “l’erba del vicino è sempre più verde”. Decisi così di andarmene a dormire che forse il giorno dopo sarebbe stato più radioso.
Infatti al mio risveglio tutto tornò normale, ripresi a lavorare di giorno e uscire di notte per poi scambiarmi qualche racconto con Fede il venerdì sera, le mie giornate trascorrevano all’insegna del divertimento e del dovere con un vago senso di nostalgia in quell’ora che va dalla chiusura del lavoro all’inizio della cena.
 

4       Udine - Un paio di anni dopo, una nuova vita

 
Annie aveva trovato un grazioso trilocale in via Mantica abbastanza vicino al centro, all’università e al suo ufficio, insomma di meglio non poteva chiedere anche se l’affitto non era proprio basso. Aveva deciso subito di trasferirsi lì convincendo Sara, una sua compagna di corso, a seguirla e condividere quella casetta. Finalmente poteva muoversi solo con la bicicletta, una vecchia Graziella un po’ scassata e riverniciata a mano; spesso si concedeva qualche giro per la città in compagnia della sua coinquilina, vagando senza una meta precisa così, per dare un’occhiata intorno. Anche Sara veniva da Milano, ma il suo trasferimento era dovuto al lavoro del padre, professore universitario, cui avevano proposto una cattedra nel capoluogo friulano. Sarà stata la nostalgia di casa, sarà stato il carattere abbastanza simile, in ogni caso le due ragazze si intesero subito a meraviglia e il traslocare nella stessa casa fu il naturale traguardo di un’amicizia bella e profonda. Avevano deciso di riempire le pareti di foto della loro città, quelle vecchie, del Duomo, di Sant’Ambrogio, del tram innevato, così si sarebbero sentite un po’ più a casa. Era incredibile come potesse mancarti la tua città quando avresti giurato che non ti interessava minimamente.
Annie stava attraversando un periodo di grazia e la nuova casa non era stata che la ciliegina sulla torta: in ufficio meritava sempre più la stima dei suoi superiori che ormai erano soliti affidarle quelli che chiamavano lavori “diplomatici”. Senza il titolo effettivo di avvocato Annie non poteva certo occuparsi dei veri clienti, anche se facili da gestire, le veniva così affidata la rimozione cortese di alcuni clienti scomodi. Il suo compito consisteva nel convincerli che le loro cause erano sacrosante, ma per alcuni cavilli legali sarebbero state un inutile salto nel vuoto, insomma li doveva convincere a rinunciare a querele, denunce e richieste di danni per reati che proprio reati non erano. La questione poteva risultare molto delicata poiché spesso si trattava di persone anziane, parenti o amici di clienti fidati dello studio e principalmente per questo motivo non potevano essere trattati a male parole. Annie li ascoltava con un sorriso sulle labbra, li faceva sfogare e poi iniziava l’attività di persuasione, spesso usando paroloni del gergo legale che davano apparente importanza ai loro problemi, poi se proprio non si convincevano mostrava loro un preventivo esagerato che funzionava sempre da deterrente anche per i più incattiviti. In quei giorni Annie stava lavorando alla persuasione dell’eccentrico signor Goffri, un arzillo vecchietto di 82 anni, ex giardiniere e fioraio, ora pensionato e stretto amico del padre del Dott. Gervasi, ricco cliente dello studio. Il signor Gaetano Goffri abitava al piano terra di un grazioso condominio, davanti al suo soggiorno aveva anche un piccolo pezzetto di giardino che curava con raffinato senso estetico: vi si potevano scorgere dei tulipani, un accenno di glicine rampicante e un rettangolo adibito ad orto dove aveva piantato alcune spezie, basilico, menta, rosmarino, qualche pianta di patate e qualche cespo di insalata. Questo simpatico pensionato voleva denunciare i figli della signora del terzo piano, due ragazzi di nove e undici anni, per aver rovinato il suo orto e tentato di avvelenare lui medesimo.
In primis Annie dovette trattenersi dal ridere, ma poi si impegnò a sbrogliare la matassa capendo che i due bambini si erano divertiti a tirar fuori le patate dal terreno, disegnarci sopra qualche faccina con i pennarelli e poi nasconderle di nuovo, uno scherzetto da nulla che aveva fatto andare su tutte le furie il signor Gaetano. Ecco, il suo lavoro consisteva, oltre alla vita di ufficio, nel convincere, magari sorseggiando un caffè, personaggi come Goffri che era meglio evitare di pagare profumatamente degli avvocati e comprare un sacchetto di patate al supermercato facendo buon viso a cattivo gioco. Per Annie questa parte del lavoro era in assoluto la più divertente, rimaneva ogni volta esterrefatta di come la gente potesse prendersela per cose da nulla, spesso bastava farli ragionare cinque minuti e si accorgevano del loro momento di follia.
Un altro caso a dir poco esilarante era stato quello della signora Ronci, convinta che la sua vicina di casa volesse gettarle il malocchio. Un paio di volte a settimana trovava della terra sul suo balcone e si era convinta che l’inquilina del piano di sopra, la signora Follieri, stesse eseguendo un qualche rituale magico dove la terra avrebbe dovuto rappresentare un’anticipazione della tomba. Annie era andata a trovare la signora Follieri per capirci qualcosa di più e aveva scoperto che i suoi abiti scuri erano dovuti a un recente lutto in famiglia e il terriccio che saltava giù dal balcone era causato da uno spruzzo troppo forte dell’impianto di irrigazione; ovviamente non sapeva nulla né di magia nera, né di rituali satanici. Fatte le dovute modifiche all’impianto e chiarita la questione anche la signora Ronci si persuase che nessuno stesse attentando alla sua vita e smise di acquistare strani amuleti. Queste erano le giornate tipo di una laureanda in giurisprudenza con la fortuna di conoscere le persone giuste.
 

5       Verona - Uno strano matrimonio

 
Mi recavo al lavoro ogni mattina in moto, solo così potevo permettermi di affrontare la tangenziale alle otto e pur sorpassando a destra e sinistra le auto ferme in coda, impiegavo almeno tre quarti d’ora per raggiungere il negozio e solo una volta arrivato scoprivo la destinazione della giornata. Quel viaggio quotidiano mi lasciava sempre il tempo di riflettere, una specie di esame di coscienza all’alba invece che al tramonto: ripensavo alla serata trascorsa, agli amici, agli impegni presi e molto più spesso a qualche donna, preparavo discorsi, cercavo idee per stupirla e mi chiedevo ogni giorno se prima o poi avrei incontrato “la donna giusta”.
Ultimamente il lavoro andava a gonfie vele, ormai avevo acquisito una certa esperienza, riuscendo ad eliminare quegli errori da principiante che facevano tanto infuriare il capo, avevo però notato sul volto di Giorgio (il capo per l’appunto) una certa apprensione legata agli ordini che scarseggiavano. Giorgio era un uomo di cinquant’anni, capelli grigi e occhi di un azzurro intenso, che svolgeva il suo lavoro con passione da quando il padre gli aveva lasciato in eredità il negozio. Riusciva a mettere qualcosa della sua personalità in ogni scatto e, forse grazie a questa sua peculiare qualità, aveva ancora un buon numero di clienti affezionati. Avevo imparato che per ogni fotografia occorreva considerare tantissimi aspetti: il soggetto, lo sfondo, la luce, l’apertura dell’obiettivo, la messa a fuoco, il tipo di macchina fotografica, ma più di tutti contava la volontà del fotografo, era lui a scegliere se far apparire un uomo come un angelo o come un diavolo, con abili giochi di luce poteva fare di una ragazza una gran dama o una contadina. Inoltre con l’avvento del digitale la foto non si decideva più nel momento sublime del clic, ma dopo, seduti tranquilli davanti a un monitor, le si poteva apportare qualche piccola modifica. In questo ero maestro, spesso ritoccavo le inquadrature, toglievo i difetti e il cliente inconsapevole apprezzava sempre.
La parte più bella del lavoro però non si svolgeva in ufficio: il meglio erano i servizi per i matrimoni, cresime, comunioni, compleanni … tutto andava bene pur di vedere fantastiche ville, partecipare a lussuosi banchetti e scattare con sfondi tanto affascinanti. Purtroppo molti ormai chiedevano a qualche amico di scattare le foto al loro matrimonio, ma qualcuno ancora legato alle tradizioni non voleva rinunciare al servizio del professionista, a quell’album fatto da un esperto, capace di immortalare nelle migliori pose uno dei giorni che non si dimenticano mai e poi mai. Giorgio spesso si faceva accompagnare da me, poiché avevo un talento per immaginare le pose scherzose e divertenti che tanto erano apprezzate dai clienti giovani; erano sempre molto semplici ma proprio per questo colpivano. Un esempio potevano essere due sposi che abbracciavamo un albero o si nascondevano dietro il tronco e spuntavano con le sole teste; per le comunioni invece un classico era il bimbo che si nascondeva sotto il tavolo trasformando la tovaglia in una tenda reale. Per ogni cerimonia funzionavano i classici del creativo: persone che si rincorrono, girotondi di bambini, foto di gruppo con le persone ordinate per colori d’abito … seguite sempre dai veri scatti obbligati a cui nessuno si poteva sottrarre, quelle foto dove il festeggiato o i festeggiati venivamo immortalati a turno con tutti gli invitati, sempre con lo stesso sfondo, sempre nella stessa posa. Questa non era proprio la parte più divertente, ma in genere era verso la fine e ormai le idee creative erano agli sgoccioli.
Infine la cosa più strana di queste cerimonie era che incontravo quasi sempre qualcuno che non vedevo da un sacco di tempo, quelle persone che perdi di vista senza volerlo e che ti fa sempre piacere rincontrare. Ti riconoscono, ti vengono incontro con l’aria stupita e ti chiedono: «Cosa ci fai qui? Conosci anche tu tizio?» e tu con l’aria furbetta rispondi: «Qui faccio il fotografo!». E poi ti guardano con la faccia di chi ha visto un extraterrestre come se non avessero mai pensato che si potesse trovare lì un fotografo. Era in questi momenti che mi contorcevo dalle risate e li stuzzicavo e deridevo per quella faccia un po’ così. Facevo due chiacchiere con gli ultimi incontrati, raccontavo del mio lavoro e cercavo di attrarre nuovi clienti, attività che Giorgio ovviamente sponsorizzava in pieno.
In genere ogni cliente che si presentava in negozio per richiedere un servizio fotografico fuori città raccontava come avesse conosciuto l’attività, chi lo avesse consigliato, come mai avesse scelto proprio quel fotografo. Inoltre Giorgio, in onore di un profondo spirito cavalleresco, era solito mandare un mazzo di fiori o una scatola di cioccolatini ai clienti che avevano consigliato il nostro studio, un gesto secondo lui di semplice riconoscenza, secondo me a volte un po’ fuori luogo. Proprio perché ero stato abituato ad annotarmi sempre chi avesse procurato un nuovo cliente, un giorno di maggio mi stupii molto nell’udire che un distinto signore aveva scelto il nostro studio perché da piccolo abitava nella casa di fronte. Mi raccontò che i suoi nonni erano amici dei vecchi gestori e che lui, bambino, spesso veniva a giocare in negozio. Aveva cercato su internet se ci fosse qualche riferimento a quello che un tempo era uno studio fotografico e, nonostante ora abitasse a Verona, aveva deciso di venire a chiedere informazioni per un servizio per il suo matrimonio.
Era stata una mia idea creare una pagina web per ottenere un po’ di pubblicità pressoché gratis, purtroppo fino a quel momento non sembrava affatto servire allo scopo. Forse qualcuno aveva portato a stampare qualche foto dopo aver visto il sito, ma nessuno aveva mai richiesto un servizio completo, tantomeno per un matrimonio. Il signore che si trovava davanti al bancone disse di chiamarsi Ricciardi, cognome abbastanza comune in quel di Milano, ma per qualche strano motivo aveva un’aria familiare, come se lo avessi già incontrato da qualche parte senza ricordare dove. Mi raccontò di essere molto dispiaciuto di non avere foto del matrimonio di sua sorella e così aveva deciso di trovare un fotografo per un bell’album, quelli da tenere sempre in bella vista su una mensola. Il matrimonio sarebbe stato a fine giugno, controllai sul registro delle prenotazioni, visto lo scarso preavviso, e lo rassicurai che saremmo venuti, pronti a realizzare l’album dei suoi sogni, lo salutai cortesemente e tornai al lavoro. La sera stessa informai Giorgio, di ritorno da una comunione: era strafelice.
«Vuoi occupartene tu di quel matrimonio? Alla fine te lo sei meritato», mi disse sorridendo, poi continuò, «se preferisci vengo con te e ti dò una mano, altrimenti vai pure per conto tuo: è tanto che lavori qui e ormai mi fido completamente di te».
Accettai quella proposta con la gioia di un bambino a cui regalano un nuovo giocattolo, sul mio viso si schiuse un sorriso e anche gli occhi iniziarono a brillare: quell’attestato di stima tanto sentito quanto inatteso, conoscendo il carattere di Giorgio, mi riempì il cuore. Certo, con il senno di poi forse sarebbe stato meglio declinare l’offerta, ma allora non potevo neanche lontanamente immaginarlo.
Quelle settimane di attesa volarono, avevo raccontato a Fede del nuovo incarico e aveva condiviso quella sensazione di fanciullesca gioia che si dipingeva sul mio volto.
Il gran giorno, il ventiquattro giugno, arrivò. Passai quasi venti minuti a decidere che camicia mettere, se jeans o pantaloni, se aggiungere una giacca: mi sentivo come una ragazza che si prepara per il suo primo appuntamento, alla fine scelsi un paio di jeans bianchi e una camicia blu scuro. Arrivai presso il Palazzo della Ragione a Verona con qualche minuto di anticipo e così per ingannare l’attesa iniziai a inquadrare la stanza per farmi un’idea di quale fosse l’angolazione migliore. Il luogo piuttosto spoglio non offriva grandi spunti, un paio di piante ai lati della scrivania del delegato del comune, una quantità considerevole di sedie rigorosamente tutte uguali, qualche anonimo quadro alle pareti e un cartello davanti all’ingresso con l’annuncio: “Giovanni e Marta oggi sposi”.
Non ho mai amato i matrimoni in Comune, non sono religioso, ma la cerimonia in Chiesa mi ha sempre dato l’idea di una promessa sacra, qualcosa che forse può veramente durare per sempre. Lì era diverso: sembrava più una procedura burocratica, documenti da firmare prima di festeggiare, mancava un tocco di magia.
Mentre mi perdevo in questi pensieri iniziarono ad arrivare invitati e sposi e la cerimonia si apprestò a cominciare, presi posto in un angolo della stanza e iniziai a scattare, interpretando a perfezione il mio ruolo. Marta, nonostante i suoi quarantasei anni era una bella donna, di quel fascino naturale che non richiede tonnellate di cosmetici per nascondere i primi segni degli anni che passano, al contrario le piccole rughe, che uno sguardo attento poteva scorgere sul suo volto, non facevano che acuirne la bellezza. I suoi occhi verde chiaro lasciavano trapelare senza pudore la gioia di quel giorno, si percepiva la sicurezza della sua scelta nonostante anche lei fosse al suo secondo matrimonio. No, quella donna era assolutamente certa di non commettere un secondo errore: Giovanni era per lei l’uomo giusto.
Anche lui sembrava più che convinto di questo passo sebbene i suoi occhi neri come la pece fossero ben più difficili da leggere. Giovanni era il tipo d’uomo di circa cinquant’anni dall’aspetto esteriore ben curato, i cui capelli neri iniziavano a macchiarsi di grigio aumentando così il suo fascino, che lui consapevole sottolineava passandoci una mano in mezzo come una mamma farebbe con il suo bambino. Ormai convivevano da più di dieci anni e la scelta di sposarsi era stata meditata e approvata con il tempo di chi non ha fretta di crescere. Non ho mai capito perché, ma molti invitati si divertono a raccontare ogni pettegolezzo al fotografo. Ogni volta che avevo accompagnato Giorgio a un matrimonio arrivava sempre il momento, in una qualche pausa, in cui una signora sulla sessantina si avvicina e inizia a narrare la vita degli sposi come se per forza tutti i presenti dovessero esserne a conoscenza. Che io sia lì solo per lavorare è un dettaglio trascurabile: siccome partecipo devo sapere. A questo giro una cugina di terzo grado di Marta si era incaricata di informarmi di alcuni fatti essenziali della loro storia: mi raccontò che Giovanni non si era comportato molto bene con la precedente compagna con cui conviveva, che era sparito, ma Marta era diversa, gli aveva fatto subito capire come dovevano andare le cose e lo aveva cambiato, facendone un gentiluomo.
Per mia fortuna la cerimonia stava per iniziare offrendomi la scusa del lavoro per allontanarmi dalla loquace signora. La cerimonia seguì perfettamente il copione e, tranne qualche applauso prolungato, non sembrò meno noiosa degli altri matrimoni in Comune. Subito dopo ci recammo in una bellissima villa sul lago di Garda dove era stato preparato il ricevimento: c’era un ampio giardino con vari tavoli sparsi, un piccolo palco con quattro musicisti e una tavolata per sposi e parenti più intimi. In fondo al giardino c’erano alcune piante di limone intorno a un piccolo dondolo e quello mi sembrò il luogo migliore per le foto degli sposi, inoltre si vedeva sullo sfondo la superficie del lago che dava una sensazione come di “senza tempo” all’inquadratura. Avrei atteso la fine della festa per quelle foto affinché la luce del tramonto potesse dare quel tocco in più all’immagine. Marta concordò con questa mia proposta e disse che potevo godermi la festa, mi avrebbe chiamato quando erano pronti. Mi condusse nella zona anteriore dove c’erano i tavoli apparecchiati e mi offrì un posto per non farmi sentire isolato dai festeggiamenti, tanta cortesia mi stupì, ma accettai ben felice di prender parte a quel ricco banchetto.
Pochi minuti dopo che mi ero accomodato un cameriere mi portò un piattino con l’antipasto e, mentre mi apprestavo ad assaggiare i gamberetti in salsa cocktail, sentii una voce familiare dirmi: «Ah, ma è proprio lei, che fortuna essere capitati allo stesso tavolo! Le piace il posto?».
Mi voltai di scatto, speranzoso di riconoscere qualche amica, ma trovai la ben nota cugina che mi avrebbe raccontato gli intrighi degli sposi.
«Sì, è molto carino, fa piacere anche a me avere accanto qualcuno con cui conversare», dissi mentre pensavo che alla fine era sempre meglio che mangiar soli in silenzio.
«Prima ti stavo raccontando di Marta e Giovanni», disse con il tono di chi è solo all’inizio, «si sono conosciuti undici anni fa in centro a Milano, a una mostra del Canova a Palazzo Reale, per poi scoprire che vivevano entrambi a Verona. Marta allora era in crisi per la fine del suo primo matrimonio, non so se hai presente cosa possono essere i tre anni fra la separazione e il divorzio».
«Posso immaginare e spero che non mi tocchi mai provarlo sulla mia pelle e su quella di amici», dissi per darle un cenno che ero interessato al suo discorso, che non era poi falso visto che c’era qualcosa di familiare in tutta quella storia.
Riprese subito, quasi ignorando il mio commento: «Per fortuna non avevano avuto figli, così nessun innocente soffrì dei litigi e degli addii che seguirono … sì, ragazzo, io il divorzio non lo accetto: se trovi l’uomo giusto gli stai accanto tutta la vita altrimenti non ti sposi mica».
Qualcosa mi fece pensare che quella signora di mezza età avesse optato per la seconda scelta e in qualche modo invidiasse tutti quelli che avevano il coraggio di osare, anche se poi finiva male. Mentre mi perdevo nelle mie riflessioni lei continuava a raccontare: «Giovanni è stato la sua salvezza: hanno iniziato a frequentarsi per ridere e svagarsi un po’, per poi scoprire che si piacevano e che il destino non li aveva fatti incontrare per caso. Marta, però, che non è una sprovveduta, ha voluto conoscere tutta la storia di suo marito prima di abbandonarsi ai sentimenti del suo cuore. Non è per nulla ingenua la ragazza!», pronunciò queste ultime parole con l’orgoglio più di una madre che di una cugina e per ricordarle il filo del discorso le chiesi con ironia: «E qual è questa misteriosa storia dell’uomo comparso dal nulla?».
«Hai detto bene ragazzo, proprio comparso dal nulla, perché Giovanni il suo passato vorrebbe cancellarlo con una pennellata di bianco, ma non potendo ha raccontato tutto con la sincerità di chi ha sofferto molto per i suoi errori». Una pausa prolungata mi fece capire che ora sarebbe arrivata la parte più dolorosa della storia, incoraggiata dal mio sguardo di attesa, continuò: «Sai Giovanni ha due figli che non vede da anni, probabilmente loro non sanno neanche chi sia il padre. Mi ha raccontato Marta che da giovane ha avuto seri problemi con il gioco d’azzardo e incapace di saldare i suoi continui debiti la sua compagna lo ha cacciato via di casa, facendogli giurare che non sarebbe mai tornato a cercare i propri figli. Giovanni, rimasto solo, si è accorto pian piano della spirale in cui stava cadendo senza freno e ha avuto il coraggio di chiedere aiuto: ne è uscito completamente, stupendo chi lo seguiva per la determinazione e la forza di volontà mostrate. Ha cambiato città e si è trovato un lavoro in banca, poi dopo aver conosciuto Marta, anche il sorriso è tornato ad abbellire la sua nuova vita».
Sembrava una di quelle storie che si raccontano solo nei film, quelle che nella vita reale non hanno mai un lieto fine, eppure quest’uomo sembrava aver ribaltato il suo sofferto destino. Pensai a mio padre, chissà come sarebbe stato crescere senza di lui: forse nel mio caso poteva essere un vantaggio ma, nonostante questo pensiero, mi spiaceva per quei due ragazzi, probabilmente quasi miei coetanei, che non avrebbero mai visto il volto del padre se non nei ricordi sfuocati di infanzia. Sarebbe difficile spiegare cosa provavo nei confronti di quell’uomo: astio per chi abbandona così la sua famiglia, ma anche stima per essere riuscito a rialzarsi da sotto terra. Mi accorsi che la signora mi stava fissando in attesa e ripresi a recitare la mia parte: «Una storia incredibile, per fortuna che si conclude con un lieto fine degno di una favola, manca giusto sapere che anche la vecchia compagna si è rifatta una vita con un altro uomo, che i figli chiamano papà!».
Non sembrava aver gradito molto il mio commento, era più che naturale che non le piacesse sentir parlare dell’altra donna, in fondo avrebbe sempre potuto essere un problema per Marta. Tentai di raddrizzare goffamente il tiro: «Sicuramente vivranno felici insieme: un uomo che ha sofferto sa cosa significa e farà di tutto perché non si ripresenti l’occasione. Marta poi è ancora una bella donna che sa sorridere alla vita e la vita non può che risponderle con un sorriso», mi sembrava di fare un discorso da nonna novantenne, ma alla signora piacque e le ridiede lo slancio per un nuovo tassello del puzzle delle loro vite.
«Sai Marta ora gestisce un negozio di dolci al cioccolato, dovevi vedere quanto era felice quando suo marito l’ha convinta a tentare questa sfida, magari un giorno potresti passare» e mi mise fra le mani un bigliettino con l’indirizzo di un locale a Verona, che riposi istintivamente in tasca.
«Certo che è proprio buono questo arrosto, non le pare? Si vede che hanno voluto il meglio per il loro matrimonio», disse con il tono di chi la sa lunga.
«Sì, veramente notevole, è stata una fortuna per me questo lavoro».
Lo pensavo veramente: non capitava spesso di essere invitato anche al pranzo e trattato al pari di un ospite, ma ora era il caso di scattare un po’, magari apprezzavano anche qualche foto del banchetto. Dopo essermi congedato dalla mia narratrice, iniziai ad immortalare tutti i tavoli ogni volta modificando l’inquadratura, mi piaceva cogliere le persone ignare mentre ridevano o parlavano animatamente: le foto sarebbero venute più vere e molti personaggi sarebbero apparsi più fotogenici. Passai poi a qualche primo piano degli invitati, colsi un signore con i baffi con in mano un calice di vino rosso, una signora che si rifiniva il trucco, un’altra donna con lo sguardo perso nel vuoto, alcuni bambini che si rincorrevano fra i tavoli… quelli erano i miei piccoli capolavori, semplici immagini che sarebbero rimaste incise nella memoria di tutte quelle persone: mi sentivo autore dei loro ricordi. Terminato il pranzo Marta mi chiamò per il servizio esclusivo degli sposi.
Ci recammo nel giardino posteriore dove li feci sedere sul piccolo dondolo incorniciato dai limoni: l’immagine poetica e il loro sorriso fecero di uno scatto una vera opera d’arte. Si divertivano tantissimo a farsi fotografare, giocavano a rincorrersi mentre scattavo, mostrando come fossero spensierati e felici. Solo allora mi soffermai a fissare Giovanni: la sensazione di aver già incontrato quello sguardo non mi aveva mai abbandonato, mi sforzai di ricordare quando avrei potuto incontrare quell’uomo, ma nulla affiorò alla mia memoria.
La cerimonia finì quando il sole era già tramontato da qualche ora e così decisi di andare direttamente a casa, il giorno successivo mi sarei occupato delle stampe. Nonostante la stanchezza quella sera non riuscivo a prendere sonno: c’era qualcosa di stonato nella giornata, come se avessi incontrato qualcuno che non doveva trovarsi lì. Iniziavo a preoccuparmi della mia salute mentale quando Morfeo mi accolse fra le sue braccia.
Di mattina presto mi recai in negozio e iniziai a stampare le foto e nel mentre, entusiasta, raccontavo i vari avvenimenti a Giorgio. Gli dissi del giardino coi limoni, dell’invito a prender parte al pranzo, della cugina che non stava mai zitta e di tutte le mie impressioni sugli sposi. Osservava in silenzio il mio lavoro prender forma con un’espressione soddisfatta che mi riempiva di gioia, poi venne il momento dei complimenti espliciti e lì iniziai a camminare a qualche metro da terra.

 

6       Milano - Lo stesso sguardo

 
Quella sera raggiunsi gli amici al campetto per una partitella cinque contro cinque: nulla di serio, una sfida giusto per far serata. Eravamo soliti noleggiare un campo da calcetto in viale Sarca circa una volta al mese, in genere la partita era seguita da una cena in pizzeria o qualche giro di locali e così si aveva l’occasione di scambiarsi qualche nuova o più di frequente qualche pettegolezzo. Mi avviai alla fermata dell’autobus poiché per una sera non avevo voglia di guidare ed ero troppo stanco per farla tutta a piedi, per il ritorno avrei mendicato un passaggio e per il sicuro ritardo mi sarei inventato qualche scusa sul momento.
Arrivai che erano già tutti cambiati, pronti per iniziare e percepii i loro sguardi interrogativi.
«Era una così bella giornata che mi sono fermato a guardare il sole tramontare e così non mi sono accorto del passare del tempo». Era una scusa patetica, nessuno guarda il tramonto a Milano, ma talmente assurda che convinse tutti a non indagare oltre.
Le squadre venivano sorteggiate ogni volta con l’unica regola fissa che i due portieri non potevano capitare insieme, il motivo credo possa apparire lampante. Appena fui vestito iniziò una partita a ritmo piuttosto lento. Quella sera il nostro era un gioco spettacolare, ma non concreto, un susseguirsi di belle azioni senza coronamento che portarono a un risultato finale con pochi goal, dopo più di un’ora di calci al pallone. La serata proseguì dal cinese, un ristorantino piccolo nascosto fra viuzze dimenticate, dove ci abbuffammo di involtini e riso fino a non poterne più, alcuni tentarono un sofisticato uso dei bastoncini, ma non appena videro il cibo sparire troppo velocemente optarono per le posate.
Mi era capitato di fronte Giacomo, un ragazzo imprevedibile, capace di intrattenerti per ore facendoti perdere la concezione del tempo, proprio come capitò quella sera. Ogni mio pensiero, sensazione, intuizione o presentimento scomparve in una stanzina remota della mia mente, attratta molto più dagli esilaranti racconti di Giacomo, che mi narrò delle sue disavventure al lavoro, una sequela di gaffe e errori da principiante che infastidiscono molto i clienti.
Era stato assunto da qualche mese come cameriere in una pizzeria di scarsa fama, ma sarebbe stato pagato abbastanza per rendere quell’occasione allettante. Dal primo giorno aveva collezionato esperienze da barzelletta che non lo lasciavano mai a corto di argomenti: era lo “sfigato” che aveva fatto cadere un piatto addosso a un cliente, quello che non sapeva cosa fosse il coriandolo quando un signore gli aveva chiesto se potevano aggiungerlo sulla pizza, confondeva le ordinazioni e i tavoli, ma spesso suscitava l’ilarità dell’intera clientela e forse solo per questo non era ancora stato licenziato. Mi raccontò in dettaglio tutte le sue disavventure e così non mi accorsi nemmeno che si era fatto tardi e che la stanchezza iniziava a bussare alla mia porta. Gli altri stavano già dividendo il conto e così l’unica mia preoccupazione era trovare un passaggio per arrivare a casa. Cercai Fede e lo vidi, in fondo al locale, tutto preso in una conversazione al cellulare. Avrei potuto chiedere un passaggio a uno qualsiasi degli altri compagni, ma decisi di aspettare che finisse, abbastanza sicuro che non mi avrebbe negato quel piccolo favore. Fede non abitava vicino, ma faceva piacere a entrambi allungare un po’ la strada per tornare a casa senza sentirsi troppo soli e scambiare qualche parola, magari un semplice commento sulla serata o su qualche novità. La telefonata stava andando per le lunghe, avevo già salutato gli altri e mi apprestavo a fumare la seconda sigaretta, quando Fede sbucò un po’ stupito di trovarmi ancora là: «Che fai, mi aspetti? Ti serve un passaggio?».
Come mi aspettavo, quella proposta arrivò con la solita naturalezza e con un sorriso risposi: «Sai che non me ne vado senza salutarti e poi non me ne posso andare senza scroccarti un passaggio, a piedi è un po’ lunga!».
«Dai, seguimi, la macchina è a cinque minuti da qui, così intanto finisci anche di fumare, quando ti decidi a smettere?».
«Sei il solito bravo ragazzo, lo sai che non smetto, perché me lo chiedi ogni volta?».
Mi guardò un attimo e poi rispose: «Perché tu hai rinunciato a smettere, ma io non ho rinunciato a farti smettere».
Dei due lui era il bravo ragazzo, quello che non mollava mai, quello che inseguiva i sogni, quello che si manteneva con una borsa di studio ed aiutava in casa, quello che si occupava della madre, quello che sapeva cosa faceva, insomma il figlio che mio padre avrebbe voluto e che io non ero mai stato. Salimmo sulla sua Punto nera come la notte, mi misi subito a curiosare nella sua musica alla ricerca di qualcosa abbastanza vivo, alla fine scelsi una compilation di Vasco più che altro per ascoltare la solita Voglio una vita spericolata. Fede guidava tranquillo con le braccia tese e le gambe allungate come piaceva a lui, quella sera andava abbastanza piano forse perché non aveva poi tutta questa voglia di tornare a casa. Osservavo il suo viso pulito e liscio di chi si fa la barba ogni giorno, il suo sguardo fisso sulla strada mentre i suoi pensieri scorrevano veloci anni luce dai miei, che riguardassero quella telefonata? Non gli avevo chiesto nulla in proposito e, se lui non parlava, era tacito accordo non domandare.